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Quando la storia non fa testo!

In un articolo a firma A. Di Marco, J.Motta  Jones, S. Magrin, T.Ghedini e L. Crivelli, comparso su Dental Cadmos 1/2013 col titolo “Rimozione chirurgica di un impianto a lama in rapporto con il nervo alveolare inferiore”, c’è una corposa introduzione che contiene cenni di storia dell’implantologia. Pregevole intento, concepito forse per introdurre l’argomento degli impianti a lama, ritenuti da molti obsoleti e facenti parte della storia remota dell’implantologia, considerati impianti sconosciuti o misconosciuti al punto da necessitare di un’introduzione storica. E ci sta. Anzi. Ben vengano queste note di cultura generale in articoli che spesso sono tanto tecnici quanto inutili. Ma, perdinci, se si vuole fare storia, bisognerebbe documentarsi un poco o meglio, almeno, non foss’altro che per evitare di beccarsi il solito Tapiro! Dunque, in tale introduzione ad un certo punto si afferma:”..ma fu nel ‘900, secolo in cui la richiesta da parte del paziente di un’estetica soddisfacente divenne sempre più pressante, che si verificarono le maggiori sperimentazioni in questo campo.” E non è vero. E’ vero si che si verificarono le maggiori sperimentazioni, ma non fu affatto per una pressante richiesta estetica, problema che negli anni ’50 e ’60, gli anni d’oro dei primi implantologi propriamente detti e pionieri italiani, non riguardava che una irrisoria fetta dei pazienti disponibili alla sperimentazione clinica, ma per una pressante richiesta funzionale. E io, disgraziatamente, sono abbastanza vecchio d’averli vissuti quegli anni, reclutato quindicenne a bottega da mio padre che aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse con gli impianti perché allora, gli impianti, mica si compravano: bisognava farseli! Parrebbe una questione da poco, ma non è affatto così. Primo perché l’estetica è sempre stata un cavallo di battaglia, strumentale quant’altri mai, dell’implantologia svedese successiva di circa 20 anni, e secondo perché fu proprio la natura della richiesta dei pazienti a determinare l’evoluzione dell’implantologia italiana così come nacque e si sviluppò. La richiesta dei pazienti (e ricordiamoci che l’implantologia non nacque nei centri di ricerca universitaria, ma negli studi dentistici proprio come risposta tradizionale del medico che, chiamato ad occuparsi della salute dei suoi pazienti, affina gli strumenti, cerca soluzioni e si danna per mantenere la propria missione: curare) era proprio questa: tornare ad avere i denti perduti, fissi, senza chirurgia, senza grande impegno, senza grandi spese e senza aspettare troppo tempo: il tempo era denaro. La velocità dell’esecuzione era essenziale, la semplicità dell’intervento pure. E così nacque l’implantologia a carico immediato, senza lembo, semplice, facile (per il paziente), economica e veloce. Era anche estetica, certo, ma secondariamente, come valore accessorio. Principalmente era clinica, terapeutica, e concedeva all’estetica quel che restava dopo l’attenzione alla clinica, cui si attribuiva la maggiore importanza. Per questo gli impianti italiani non hanno riassorbimenti “fisiologici” dell’osso né tassi di perimplantite così elevati come quelli svedesi. Sono evidenze cliniche e solo cliniche, poiché le università ed i centri di ricerca non se ne sono mai occupate (che strano!), ma chiunque li abbia usati lo sa.
E le prove sono nelle cartelle cliniche delle migliaia di operatori che li usano tuttora.
Ma andiamo avanti. Subito dopo si afferma: “L’implantologia di inizio del secolo scorso era rappresentata per lo più da impianti endossei che avevano le più svariate forme tra cui quella di radice, che poteva essere piena o vuota, di tubo, di canestro, di vite cava a spirale (tecnica di infibulazione diretta endoalveolare di Formiggini) ed erano ricavati da una vasta gamma di materiali. In tempi successivi Dahl e altri tentarono tentarono l’applicazione di trame metalliche inserite direttamente sotto il periostio (impianti juxtaossei) e dotate di perni sporgenti…(omissis)”.
Dal punto di vista storico questo è un gran pasticcio: Formiggini presentò la sua vite nel 1947 mentre il tentativo di Dahl risale al 1938.  Segue un elenco di nomi, breve come è giusto che sia in una semplice introduzione, in cui dovrebbero comparire i nomi più importanti e stupisce che, parlando di lame, non si citi Pasqualini e la sua lama universale.
Si afferma poi :”Purtroppo, nell’opinione della maggioranza degli specialisti, furono gli insuccessi, più numerosi e clamorosi dei successi, a determinare un generale atteggiamento di rifiuto. Così per molti anni questo tipo d’implantologia endossea e juxtaossea rimase in sostanza appannaggio di pochissimi, spesso rappresentati dai soli autori delle metodiche”.
Falso. O sbagliato, se preferite. Ma andiamo con ordine. Abbiamo detto dei nomi importanti che doverosamente andrebbero citati in una tale succinta lista e dunque mi chiedo come mai non si cita Tramonte, che introdusse formidabili principi e novità in implantologia adottati poi, a fatica, anche dalla scuola svedese: citiamo alcune bazzecole come l’introduzione del titanio, l’introduzione dell’area di rispetto biologica, il disegno del primo impianto davvero funzionale al carico immediato, la prima codificazione dell all on six e altre cosucce di pregio, del tutto misconosciute o, peggio, taciute dagli autori.
I successi ci furono, e assai più degli insuccessi, e furono sì clamorosi, dati i tempi, e costituiscono tra l’altro uno dei motivi per cui tale implantologia è sopravvissuta sino ad oggi: e furono documentati con istologie (Pasqualini, 1962; Pasqualini, Camera 1972) e pubblicazioni (Tramonte 1964, in cui si presenta una statistica di successo superiore al 90%). E detto per inciso, che poi inciso non è affatto, le lame di Lincow, le viti di Tramonte e gli juxtaossei di Dahl invasero il mondo e furono utilizzati da migliaia di operatori e tuttora si usano. E diciamo anche che la FDA ha recentemente riclassificato le lame alzandone il rating di affidabilità. Se si vuole fare informazione, bisognerebbe informarsi prima…
Infine l’affermazione clou: “La vera rivoluzione avvenne nei primi anni ’80 con l’elaborazione, da parte del chirurgo ortopedico e ricercatore svedese Branemark, di una nuova scoperta conosciuta con il nome di osteointegrazione”. Ora, chiariamo subito che Branemark non scoprì proprio niente: il primo impianto in titanio, e dunque osteointegrato, della storia dell’implantologia è un impianto Tramonte; la sistematica implantologica fu ripresa da Branemark da un brevetto di un certo Adams, depositato nel lontano 1938; tutti i presupposti fondamentali classici del pensiero branemarkiano sono stati abbandonati e soppiantati, pensate un po’, da quelli precedenti che furono introdotti dai tanto vituperati pionieri italiani.
Ciò detto riconosciamo a Branemark ciò che gli va riconosciuto e cioè l’aver determinato il passaggio, storico, dall’implantologia dei pionieri a quella dei ricercatori, dall’implantologia dell’intuizione a quella del metodo scientifico. Ma tale elaborazione non avvenne nei primi anni ’80, cominciò assai prima: la sua prima pubblicazione è del ’77 e si riferisce a dieci anni di ricerca…

Chiunque voglia l’esibizione di prove di quanto da me affermato mi troverà disponibilissimo.

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